Arte diversa
Piergiorgio Prudenziato
Quando parliamo di identità
pensiamo di affermare un concetto che
indica una completezza che è unica, distinta, che dura nel tempo mantenendo la
sua purezza. “Noi siamo così”. Nel far questo
si tende ad allontanare da questo concetto tutto ciò che non fa parte
del nostro mondo. Non appena questo concetto vien calato nella realtà
quotidiana dimostra la sua fragilità per
il paradosso che per esser noi stessi dobbiamo continuamente far entrare l’altro nella nostra vita e
questo altera il concetto di identità. Ci accorgiamo dell’altro, diverso da noi,
nel momento dell’incontro. Anche se continuiamo a definirci identici, scegliamo
cioè di esser noi stessi e non altri, la nostra identità ha bisogno proprio del
diverso da noi,proprio dell’altro per continuare a dire che noi siamo proprio
noi, e anche diversi dagli altri. Nell’incontro alla rivelazione che esiste un
altro fuori di noi che non fa parte del nostro mondo, la nostra identità subisce
una serie di trasformazioni, di alterazioni, perché il mondo non è più solo
nostro ma dobbiamo condividerlo con l’altro. Questo paradosso di perdita del centro del nostro mondo,di
continua lotta tra il tentativo di
soppressione dell’altro e la sua assimilazione
per renderlo simile a noi vale per le persone ma anche per i popoli ma
specialmente per le loro culture e i loro prodotti come le arti. Come esempio
pensiamo a due culture la bianca e la nera che
hanno passato secoli in un continuo rapporto di forza, ostile con uno
sguardo cieco, che non vedeva l’altro. La cultura bianca per fare proprio l’altro per renderlo simile
si è appropriata delle sue cose, degradandole a oggetti di nessun valore, ammassandoli senza criterio come trofei e testimonianza
della propria supremazia. Possiamo
invece datare con precisione il primo vero incontro con la cultura nera quando
un occhio attento disponibile a vedere comincia a riconoscere nei prodotti
tribali modi e forme che li collocano in un mondo estetico ben preciso al
confine col nostro. Da quell’incontro le due culture quella europea e
l’africana subirono una trasformazione
nel modo di percepirsi, di reagire
al potere delle immagini; in
fondo nel modo di riconoscere le identità dell’altro. Questo accade nel marzo
1907, il luogo è il museo del Trocadero e il protagonista è Pablo Picasso che
in quel periodo stava cercando in altre
forme espressive una propria identità artistica. La cultura bianca dell’inizio
secolo era in grande trasformazione sia per l’affermarsi del metodo
psicoanalitico che iniziava ad esplorare
il mondo interno che per l’esplosione
della tecnica fotografica e anche cinematografica che riproduceva fedelmente la
realtà esterna. Ancora era predominante
l’idea che l’arte fosse la riproduzione della realtà esterna, ma questa stava
diventando un modello insufficiente per
gli artisti che estendevano la loro ricerca per trovare nuovi modelli e nuovi temi. Nel
ritratto di un volto si aspettava di
ritrovare la somiglianza della fisionomia ma anche la personalità del modello. Picasso ripensa il ritratto come un riassunto delle
risposte dell’artista al modello e lo
trasforma da un documento oggettivo (ormai
dominio delle fotografia) a un concetto di identità ideale che l’artista riesce a ricostruire nella propria mente. Dipingendo a memoria e
non più dal vero il ritratto diventava l’immagine non di come era il modello ma di come era visto e vissuto dall’artista. Una specie di
fotografia di quanto era avvenuto nella mente dell’artista alla vista del modello. A 26 anni Picasso è
in un momento di grande curiosità per nuove stimolazioni e di grande fermento nello sperimentare nuove strade. Nell’estate del
1906 passa un periodo sui Pirenei a
Gosol, studiando l’arte ispanica antica della scultura su stele, e ne ripropone dei torsi in legno, compra due sculture che
erano state trafugate dal Louvre, ma ha anche l’occasione di vedere la Madonna
di Gosol statua lignea che si caratterizza per gli occhi enormi. Questi occhi si ritrovano nei ritratti di Gertrude Stein ma specialmente negli studi per il proprio
ritratto, dove si figura simile ad un
ragazzo come fosse ritornato su percorsi antichi alla ricerca di forme originarie. Occhi e volumi appena
sbozzati prevalgono in questo periodo per tutto il 1906. Poi, al ritorno a
Parigi lo stile subisce una
trasformazione improvvisa, nella primavera del 1907. Tutti i ritratti dei mesi successivi riportano i segni di
questa trasformazione a cominciare dagli occhi, dallo spostamento di piano dal
frontale al profilo dalla perdita del
dettaglio fedele per astrarsi in una nuova fisionomia … serie di ritratti. Il
riassunto e punto d’arrivo di tutto questo processo di astrazione dalla realtà
termina alla fine di luglio 1907 con la
sua interpretazione del tema delle
bagnanti che a partire da Cezanne,
imperversava negli artisti dell’epoca
in quanto permetteva di studiare
quasi come col metodo fotografico la
posizione migliore per l’inquadratura
del corpo. Il punto di sintesi sono Les demoiselles
d’Avignon. Cosa gli era successo per determinare un radicale
cambiamento che porterà poi tutta l’arte occidentale a diventare astratta? Lo indica Picasso
stesso, quando descrive l’incontro con
la cultura africana. E’ nella primavera del 1907 che Picasso presenta tutti i sintomi della
sindrome di Sthendal durante la visita
del Trocadero, “spaventoso museo più simile ad un magazzino di rigattiere sovraffollato”. Inaugurato nel 1882, il Trocadero
raccoglieva in modo confuso tutti gli oggetti tribali riportati dalle varie spedizioni come testimonianze e trofei della conquista coloniale francese. Le
tre spedizioni dall’83 all’86 di Pierre Savorgnan di Brazza nelle regioni dei
fiumi Congo e Ogowe, riportarono un bottino di un centinaio di casse di
reperti naturalistici ed etnografici. Fu redatto un notiziario sulle collezioni
delle missioni scientifiche che
dimostrava però dalle considerazioni affrettate
la scarsa attenzione per usi
costumi credenze e miti da parte di chi
aveva raccolto in loco i vari reperti. Erano giunti ad es. tre esemplari di reliquiari dei Ba-Kota
ma senza la parte essenziale costituita dal paniere che conteneva le ossa
del cranio. (Alla spedizione partecipava Antonio Pecile che diede due reliquari
all’Italia dove ancora si trovano al
museo Pigorini di Roma). “Era disgustoso
un vero mercato delle pulci… Ero
solo. Volevo andarmene ma non andavo via rimanevo, rimanevo... capii che
era molto importante che mi accadeva
qualcosa… Mi trovavo in piena magia.. Non erano sculture come le altre: erano cose magiche! L’ammasso confuso
permette di cogliere anche per la forzata vicinanza il mescolarsi del sacro con
l’esperienza quotidiana. Poi ho capito: …
non ci eravamo accorti che i
primitivi erano esorcizzatori contro tutto, contro spiriti minacciosi, contro tutto
l’ignoto che ci circonda che ci è nemico”.
L’immedesimazione qui è totale. In Africa tutto è soggetto a interpretazione da parte dello scultore per
esorcizzare la paura. Mentre da noi l’artista è solo e isolato e la sua
creazione passa dal suo studio al museo, in Africa rimane in continua comunione
con gli altri, crea mentre partecipa
alla vita del villaggio, non basta che egli crei ma bisogna che il villaggio
accetti la sua proposta. L’opera non è più sua e per questo è anonima, senza
firma, perché tutti sanno chi è il
fabbricatore che gode di uno status sociale particolare, ma diventa magica
perché partecipa del consenso di tutti, esprime una conoscenza che è
riservata e appresa gradualmente solo da iniziati e viene consacrata da riti
ben precisi. L’artista è un iniziato e conosce i segreti del mito e dei
riti, li tramanda nella sua opera che
diventa sacra proprio perché racchiude la potenza e il sapere del mito L’artista resta anonimo perché la sua
funzione non è di inventare di creare ma
di far scoprire i segreti del mito.
L’opera una volta consacrata fa parte
del villaggio come oggetto sacro dotato di poteri. Potere di conoscenza, riservata,
imparata per gradi. Se non ha questo alone di
sacralità l’opera perde i suoi poteri i suoi segreti e quindi può esser distrutta. Non ha più importanza e può così esser lasciata o meglio venduta ai
non iniziati, specie se europei. Nelle
popolazioni del Congo nord la produzione di maschere e dei reliquari era
caratterizzata da una grande cresta sagittale che ricorda quella del gorilla
maschio simbolo della forza invincibile e inarrestabile; questa si ritrova
amplificata o modificata a delineare una figura di testa umana derivata
più da un immaginario onirico che
reale.
Nella
tradizione Kota infatti si è ricorsi a
una espressione onirica quella delle
immagini pure (questo è il significato delle parola mbulu) degli antenati diventate più immagini mentali che ritratti
reali. Diventano segni formule stilizzate e geometrizzate allusive in un sistema a due dimensioni: non è importante
riconoscere il morto, quel parente ma è
vitale per la collettività ricordare che
i morti nel loro insieme pesano sulla sopravvivenza dei vivi: il mbulu ngulu è il richiamo costante del legame che esiste tra
mondo dei morti e dei vivi. L’aspetto sacro e segreto è legato al culto dei
crani e ossa conservate nei panieri, gelosamente conservate, mentre i guardiani
in legno erano ceduti agli europei
curiosi come nella spedizione di
Savorgnan de Brazza. I reliquiari dunque
hanno assunto uno stile con il tema ricorrente della grande cresta
sagittale. Cresta e ali laterali del mbulu ngulu placcate di rame sono una trasformazione audace che porta dal
piano sagittale tridimensionale al piano
trasversale a due dimensioni:
soluzione artistica questa
straordinaria per alludere alla perdita di una dimensione esistenziale del defunto, che rimane ancora
“vivo” ma solo in forma di doppio, privo della
terza dimensione del corpo. Picasso
intravvede subito le componenti
estetiche e le soluzioni ardite di questi oggetti e li trasforma attraverso il suo sguardo in
opere d’arte, ne riconosce il valore di
capolavori. Ed è alla fine di luglio del 1907, dopo una produzione esplosiva di studi e ripensamenti che finisce
Les demoiselles d’Avignon il cui
volto a maschera si sovrappone
alle figure del reliquiario Kota e
Hongwe. Sul piano delle metamorfosi plastiche
rimane costante anche nella produzione successiva un richiamo con lo choc del Trocadero. Nel
ritratto di Dora Maar del 37 o la testa
di donna del 35 , col volto
colto sia di fronte che di
profilo, ritornano ancora i volti de i guardiani ondoumbo, Come gli
scultori Kota o Mahongwe avevano già
osato per i loro bisogni spirituali e sociali, anche Picasso riesce
ad effettuare questo passaggio iconografico dal reale al sogno. Con
quell’incontro le cose cambiarono. Si cominciò ad accettare l’idea di una
estetica primitiva e l’arte occidentale non
si limitò più a rappresentare la
realtà, ma inizia un viaggio di autoanalisi di rispecchiamento della realtà
interna, di descrizione del grande senso di colpa, non ancora risolto, di non
saper scoprire l’arte diversa.
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