giovedì 28 giugno 2018

MASAMI TERAOKA in Mnemosine

MASAMI TERAOKA.

La santità laica tra occidente ed oriente.


Amicizia? Se si considera la lontananza che ci separa è un concetto azzardato; tuttavia il rapporto epistolare, comunicativo, spontaneo di stima, la condivisione per l’arte bella, concettuale, senza pregiudizievoli vincoli, senza condizioni, allora siamo amici. Conoscenza lontana nel tempo, frutto di alcune recensioni e di un mio breve giudizio positivo su quella che mi giungeva agli occhi e al cuore come una pittura sincretica nella fusione tra occidente ed oriente. Masami nasce in Giappone a Onomichi (Hiroshima) nel 1936; completa  gli studi nel 1959 presso la Kwansei Gakuin University a Kobe laureandosi in  Estetica. Nel 1961 si trasferisce negli Stati Uniti; a Los Angeles nel quadriennio 1964-68 frequenta l’Otis College of Arte and Design ottenendo laurea e un master in Belle Arti. Le origini nipponiche hanno conservato il gusto e la predilezione per l’arte del Sol Levante soprattutto nelle forme sinuose della donna e nel tratto morbido, ma deciso del disegno e nelle interpretazioni del mare, frastagliato nei flutti come pizzo veneziano; chiare reminiscenze dei periodi Azuchi-Momoyama e dell’opera di Utamaro e di Hokusai, che tanto influenzarono i maestri occidentali, nella fattispecie Van Gogh, Monet, Manet, Pissarro e l’Art Nouveau. La grande onda, la formazione intellettuale del “mondo fluttuante” nel suo complesso sono le radici sulle quali Masami imposta la narrazione pittorica. La cultura Ukiyo dinamica, irruenta, contestatrice è il veicolo per le tematiche forti  quali l’AIDS, l’attacco dell’11 settembre, la questione ecclesiastica. L’amore per la pittura italiana ed europea dal tardo Medioevo al Rinascimento emerge nell’allusione ai particolari delle grandi opere e nella interpretazione obiettiva della religiosità profusa di ipocrisia. Nell’affermare il primato del trascendente sulla ragione e sulla scienza la Chiesa ha adottato qualsiasi mezzo e l’inquisizione è stata l’arma per sacrificare il pensiero libero, lo sviluppo sociale e la femminilità giudicata peccaminosa nel corpo e nel contempo abusata in maniera perversa e non senza risvolti di crudeltà. L’ambiguità tra i chiostri, The Cloisters, ha la forza espressiva di denuncia e di racconto: compattazione tra occidente ed oriente nella cronaca di ciò che successe tra le antiche mura dei monasteri, geishe violate e comparazioni con contemporanei abusi sui giovani dai prelati americani. Le metafore di Masami, negli acquarelli e negli oli, oltre la lettura erotica dei soggetti -avvenenti signorine, sex symbol, streghe, frati, vescovi e papi- danno messaggi di straordinaria attualità e critica sociale. Il soggetto maschile, secondo la funzione narrativa, trattasi di AIDS, viene criptato in pescegatto gigante, piovra tentacolata… propaggini peniche attive nella trasmissione del virus in acque agitate da grandi onde. Masami Teraoka nella campagna informativa non si esime dall’esporre la prevenzione: il preservativo. Ancora una volta la donna impersonata nella trattenitrice giapponese, davanti al maschio contagiato dalle occhiaie bluastre, mette a disposizione il preservativo (Tale of a Thousand Condoms Series). Sono convinto che lo spettatore italiano medio, meno emancipato del contemporaneo americano, abbia ancora dell’imbarazzo nell’impatto con un’arte libera da complessi e da un’inculturazione clerical-cattolica, tuttavia è doveroso mostrare l’incondizionata santità laica di Masami. Quella che fa ergere la torre di Babele, -fa parte delle opere presenti al Museum of Art di Honolulu- medioevale nella rappresentazione, ma attuale nella simbologia delle torri gemelle, con monache, spose e stuprate gravide di dubbie paternità. E’ sempre nelle spire delle megalopoli, nelle torri di Babele, che prolificano i McDonald produttori di hamburgers e colpevoli del precariato lavorativo. Masami è cronista fecondo ed obiettivo con linguaggio pittorico incisivo e ricco di cultura. La vasta produzione di Masami Teraoka ha all’attivo oltre 70 mostre personali itineranti; da menzionare: quelle organizzate dal Whitney Museum of American Art nel 1980; The Contemporary Museum, Honolulu (ora noto come Honolulu Museum of Art Spalding House) nel 1988; e la Yale University Art Gallery nel 1998. Nel 1996 è stato protagonista di una mostra personale presso la Arthur M. Sackler Gallery, Smithsonian Institution e nel 1997 presso l'Asian Art Museum di San Francisco. Le Sue opere sono presenti in 50 collezioni pubbliche in tutto il mondo, tra cui il Crocker Art Museum, Sacramento, CA; i musei delle belle arti di San Francisco; l'Asian Art Museum di San Francisco; lo Smithsonian American Art Museum, Washington D. C .; il Museo dell'Arte di Honolulu, Hawaii; il Museo d'Arte della Contea di Los Angeles; il Metropolitan Museum of Art, New York; la National Portrait Gallery, Washington D. C .; Tate Modern, Londra, Inghilterra; la Galleria d'arte del Queensland / GOMA, Brisbane, Australia; la Galleria di Arte Moderna, Glasgow, Scozia; e il Singapore Art Museum, Singapore. Masami Teraoka è stato due volte premiato dall'American Academy of Arts and Letters, New York e ha ricevuto due borse di studio dal National Endowment for the Arts. La prima monografia completa sull'artista è stata pubblicata nel 2007. Masami Teraoka ha tenuto conferenze al Whitney Museum of American Art, all'Asian Art Society, all'Institute of Fine Arts / NYU e alla Brown University. Numerosi sono stati i dipinti commissionati, fra i quali: Samurai Businessmen per la copertina del TIME Magazine del 30 marzo 1981 e Green Rabbit Island per la State Foundation for the Arts and Culture, Honolulu, Hawaii. È rappresentato dalla Catharine Clark Gallery di San Francisco dal 1997 e da Samuel Freeman a Los Angeles.
Vincenzo Baratella©.
Masami Teraoka, Semana Santa/Venus security check open, oil on canvas.
Masami Teraoka, Virtual inquisition/Reclining Eve, 1997, oil on canvas.

giovedì 21 giugno 2018

Don Quijote secondo Impero Nigiani in Mnemosine

Don Quijote (Don Chisciotte)
Personale di pittura di
IMPERO NIGIANI
Studio Arte Mosè di Rovigo, Via Fiume,18
dal 16 giugno al 05 luglio 2018


Grazie alla consolidata amicizia di Vincenzo Baratella con l’Artista è stato possibile portare a Rovigo la prestigiosa rassegna tematica “Don Quijote”, patrocinata dalla Regione Toscana ed il Comune di Firenze. Sabato 16 giugno 2018 alle ore 18,00 allo Studio Arte Mosè di Rovigo è stata inaugurata la personale di Impero Nigiani. L’Artista fiorentino, inserito nei libri di  storia dell’arte, nato -il nome è indicativo- nel Ventennio vanta una lunga carriera ricca di ambiti riconoscimenti. A sommare alla corposa produzione pittorica sono le illustrazioni a pregevoli edizioni della Divina Commedia, delle opere di Ovidio, dei classici greci e dell’epica di Omero e di Virgilio. Di Genova, storico dell’arte, lo definisce Artista dallo sguardo cristallino. “Lo straordinario realismo comunicativo è frutto -secondo Vincenzo Baratella- di una decodifica critica dei fatti storici, di una sapiente lettura dei diversi messaggi culturali e di una perizia tecnico-formale comune solo ai grandi del passato”. Impero Nigiani non ha mancato di stupire con mostre tematiche sugli anni di piombo, sui protagonisti del secolo breve, sul medioevo, e… con spirito ironico toscano, sfruttando “Addio Wanda”, un articolo di Indro Montanelli sulla chiusura delle Case in seguito alla legge Merlin, realizzò una indimenticabile mostra. La Sua produzione è stata presentata da autorevoli critici: Giorgio Di Genova, Vittorio Sgarbi, Giampiero Jacopini, Lucio Scardino, Giorgio Segato ... Nigiani ha scambiato l’amicizia, la condivisione di corrente, con le più autorevoli firme del Novecento. Qualche anno fa, quasi a sfogliare l’album dei ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, citando il titolo di un libro di Susanna Agnelli, Nigiani creò una cartella con dieci acqueforti dal titolo “Vestivamo alla marinara (non tutti)” che divenne eccezionale mostra itinerante in Italia. “Don Quijote” è presente allo Studio Arte Mosè, in Via Fiume, 18, con lo stesso corpus in cui è stato mostrato a Firenze: venti oli, due disegni e cartella di acqueforti. Vincenzo Baratella, curatore della rassegna di Rovigo, Don Quijote secondo  Impero Nigiani, scrive:Figura controversa quella di Don Chisciotte, anacronistica per l’epoca che sanciva la fine della cavalleria. Il Seicento ricco d’innovazioni nel mestiere della guerra e altrettanto fervido nell’indagine metodologico-scientifica, critico sul primato della fede, chiude con l’immagine del cavaliere puro d’animo, devoto al feudatario investitore, pronto al sacrificio e alle grandi imprese, spinto dalla fede nelle cause giuste contro infedeli, difensore dei deboli e della donna. La cavalleria secondo la Chanson de Geste vive solo nell’immaginario, alla stregua del Ciclo Bretone. Lontano dallo spirito di abnegazione di Orlando,  dalla spinta religiosa di Perceval, dal Sigfrido, novello Achille nella saga dei Nibelunghi, il cavaliere era nella realtà stupratore, saccheggiatore e poco avvezzo ai principi morali. Per arginare l’indicibile brutalità la Chiesa intraprese una serie d’iniziative: la Tregua di Dio e la Pax Dei; Guarino, vescovo di Beauvais, nel 1024 pretese dal neocavaliere un esemplare giuramento morale. Mecenatismo e corti fecero rivivere Orlando, i paladini di re Carlo, e gli antagonisti mori, saraceni, sotto l’ottica dell’umanesimo. Ludovico Ariosto, fruitore della protezione estense, intrattenne la corte con il cavaliere impazzito per amore. Aggiunse a corollario maghi, maghe, sortilegi, ipogrifi, castelli incantati. Cervantes, circospetto nell’interrelazione con la predominante coercitiva Chiesa spagnola, si pone derisorio della decadente casta equestre. Di questa celebra comunque l’humanitas, il recupero di valori morali nonché le regole della tradizione. Don Quijote è l’icona di un mondo in decadenza, che aspira -anche solo nella reminiscenza- ai fasti di imprese eroiche. Armato di una picca arrugginita, con l’elmo bacinella di cerusico, assuefatto all’epopea cavalleresca, in sella a Ronzinante, seguito dall’accondiscendente scudiero, il cavaliere sognatore della Mancha si esibisce in una giostra di straordinarie, esilaranti, patetiche imprese. Nigiani, toscano verace, s’investe nella narrazione satirica e dà il la ad una orchestrazione di contrappunto all’intera opera pittorica con brani che narrano il passato e nel contempo enunciano il presente. L’Artista legato alla pittura leggibile, citazionista, con magistrale realismo espressivo, dà energia e attualità al soggetto apparentemente desueto. Impero Nigiani al cavalletto, come regista, sotto l’ombrello parasole, fissa le sequenze del film senza escludere il messaggio etico. L’io narrante del pittore, grazie soprattutto al rigore del tocco formale cromatico, rigenera l’opera del passato in chiave moderna. I Picari coevi s’incarnano nelle figure scure di madri, vedove, donne dimesse, così come il toro nero, picassiano, simboleggia la mediterraneità nel gioco di colore giallo nero, all’unisono con le tauromachie, con i sogni di potenza di imperi senza confini o di libertà attese per moriscos e marrani. Nigiani compatta ieri e oggi, il passato e la modernità con il sicuro intento di coniugare nella ironia narrativa l’incedere di Don Chisciotte e Sancho Panza lungo il Palazzo della Civiltà del Lavoro. Alla marcia del Quarto Stato s’uniscono Elisabetta di Valois e lo stesso Cervantes guarnito di garofano rosso; l’alternanza diacronica dell’evento similare: la rivoluzione dei garofani contro il regime di Salazar; Pelizza da Volpedo e l’Internazionale socialista per la comune lotta socialista. Proletari e capitalisti, rivoluzionari e reazionari, picari e hidalgos, santi e miscredenti sono tutti presenti nelle sequenze di Impero Nigiani, che, con il sarcasmo che lo contraddistingue, non si esime da porre a sfondo del cavaliere spagnolo l’arredo urbano degno di un ambizioso odierno villaggio turistico”. Con un folto pubblico di appassionati e di artisti, sabato 16 u.s., alla presenza dell’Artista hanno commentato la rassegna i critici Vincenzo Baratella e Lucio Scardino.
Catalogo alla vernice.
La mostra, a ingresso libero, sarà visitabile:
dal 16 giugno al 05 luglio 2018 tutti i giorni feriali

dal lunedì al venerdì dalle 16,30 alle 19,30
Da sinistra: Impero Nigiani e Lucio Scardino
Da sinistra: Vincenzo Baratella e Impero Nigiani

mercoledì 20 giugno 2018

Padiglione Ungheria Biennale Architettura 2018 in Mnemosine


16^ Mostra Internazionale  Architettura
Padiglione  Ungheria Venezia Giardini - 
Biennale Venezia 26 maggio- 25 novembre 2018

Il padiglione  dell’Ungheria presenta  
“Ponte della libertà: nuovi orizzonti urbani”
Il tema proposto dall’Ungheria denota una prospettiva nuova, diversa di guardare la realtà architettonica di una città. Solitamente lo spazio urbano ha un suo ordine, ogni edificio ha una funzione; ci sono luoghi destinati ai cittadini perché possano incontrarsi, “crescere”, contribuire alla “costruzione “ della loro città, migliorandola. In una particolare occasione  a Budapest ( città costituita da due spazi urbani Buda e Pest) per lavori di ristrutturazione di infrastrutture, uno dei ponti sul fiume Danubio è stato chiuso ai mezzi di trasporto pubblico e privato. Questo blocco tecnico ha dato modo alla popolazione di conoscere più da vicino  il loro ponte struttura che serve per unire situazioni logistiche diverse, lontane, idealmente può rappresentare una modalità di conoscere, confrontare  differenze  di pensiero; forse per questo motivo la gente  ha vissuto tale situazione come un’occasione per vivere da vicino una struttura architettonica come quella di un ponte: una “terraferma” sospesa su di un fiume, la realizzazione di una fantasia, si può  camminare, stare a guardare un paesaggio da un punto di vista  nuovo, prendersi il tempo per conoscere, capire una  realtà che elimina gli ostacoli, permette di andare e tornare, di scegliere in maniere incondizionata, ogni volta reversibile il luogo, la posizione che interessa. Ciò che era bloccato secondo l’uso quotidiano ha permesso di pensare, respirare  il senso della libertà.  Emanuela Prudenziato



Padiglione Lussemburgo 16^ Mostra Internazionale di Architettura in Mnemosine



16^ Mostra Internazionale di Architettura
Venezia 26 maggio – 25 novembre 2018
 Padiglione Lussemburgo

L’architettura dello spazio comune

La problematica affrontata quest’anno dagli architetti lussemburghesi  riguarda  l’utilizzo  razionale del suolo, il rispetto del terreno su cui si edificano strutture con fruitori diversi in modo da  salvaguardare  un patrimonio che appartiene a tutti e non si può  aumentare. Vari architetti nel tempo si sono cimentati con l’obiettivo di costruire rispettando l’ambiente: El Lissitzky con il Wolkenbügel («Appendinuvole») del 1924 :un grattacielo orizzontale una nuova tipologia. Si tratta di tre piloni staccati l’uno dall’altro  con tre strutture   orizzontali di uffici connesse tra loro. “L’apertura verticale inserita nei piloni doveva subito essere collegata a stazioni della metropolitana preesistenti. Così facendo El Lissitzky voleva creare superfici utili sopra edifici esistenti o al di sopra di infrastrutture, senza costruire sul terreno, per proporre un modello alternativo al grattacielo di Chicago e New York, la cui base riempie il più possibile il terreno. Contrastando l‘«ostinazione verticale», il Wolkenbügel doveva contribuire a creare «una comunanza orizzontale». «L’architettura statica delle piramidi è superata», affermava El Lissitzky, «la nostra architettura rotola, nuota, vola».” A ribadire il concetto l’architetto progettò  un edificio  con pareti mobili  prevedendone anche  lo smontaggio.


Le Corbusier (1887–1965) propose l’Ilôt insalubre no 6, facente parte del suo progetto parigino del 1937, per rispondere alle esigenze  di un centro urbano di tre milioni di abitanti del Plan Voisins e della Carta di Atene. “Due complessi abitativi di 16 piani avrebbero dovuto svilupparsi per quattro isolati indipendentemente dalla rete viaria esistente.”La novità  di tale edificio consiste  nel fatto che Le Corbusier “lascia libera non solo l’intera area del piano terra sopraelevandola su palafitte– persino i parcheggi a fianco dovevano trovarsi su palafitte –, ma anche il piano superiore, che doveva accogliere diverse funzioni comunitarie, come anche la terrazza sul tetto. Il suolo doveva restare accessibile solo a pedoni e ciclisti.” 


 Un altro esempio di struttura abitativa  in sintonia con le esigenze ambientali  è costituito dalla torre residenziale di Luigi Snozzi (*1932) “sopraelevata, la cui pianta si basa su una   geometria complessa: tre cerchi sono raggruppati attorno ad un cerchio di circolazione centrale; nelle intersezioni e nei punti centrali dei cerchi esterni sono disposti sei cerchi più piccoli. La pianta è spostata di 45 gradi a metà piano, di modo che per ogni appartamento sono disponibili su entrambi lati due semicerchi che fungono da terrazza. Mentre in alto la struttura si sfilaccia in terrazze comunitarie, al piano terra si crea un grande spazio libero destinato a vari utilizzi comuni o pubblici, protetto da un disco molto sporgente.”


Soluzioni residenziali vengono proposte dagli studiosi dell’Università del Lussemburgo con«Hochhaus» (edificio elevato) e «Zeile»(caseggiato) che rielaborano le precedenti esperienze  di architettura  urbana mantenendo il medesimo obiettivo :  “grande superficie utilizzabile e scarsa superficie del terreno, forme abitative individuali con attività in comune, strutture su grande scala per un utilizzo flessibile e infine diverse forme di costruzione modulare e prefabbricata, di riciclaggio e conversione d’uso che rispondono alle esigenze derivanti dalla dimensione temporale dei contratti di costituzione di diritto di superficie e dai cambiamenti sociali in Lussemburgo.”   La Torre  permette  che il restante  suolo possa essere utilizzato  “con criteri architettonico-paesaggistici “o a fini agricoli,
 realizzato in aree ad alta densità abitativa  e “in aree suburbane o rurali”.
Da qui emerge un nuovo tipo di architetto che non è più solo colui che  progetta  abitazioni, uffici… secondo le esigenze  del cliente, ma insegna  a riflettere sul senso del costruire  in rapporto  allo spazio a disposizione   considerando la realtà dell’unico mondo  che abbiamo a disposizione.   Emanuela Prudenziato