lunedì 16 dicembre 2013

Arte diversa in Mnemosine

Arte diversa
Piergiorgio Prudenziato
Quando parliamo di identità pensiamo  di affermare un concetto che indica una completezza che è unica, distinta, che dura nel tempo mantenendo la sua purezza. “Noi siamo così”. Nel far questo  si tende ad allontanare da questo concetto tutto ciò che non fa parte del nostro mondo. Non appena questo concetto vien calato nella realtà quotidiana dimostra la sua fragilità  per il paradosso che per esser noi stessi dobbiamo continuamente  far entrare l’altro nella nostra vita e questo altera il concetto di identità. Ci accorgiamo dell’altro, diverso da noi, nel momento dell’incontro. Anche se continuiamo a definirci identici, scegliamo cioè di esser noi stessi e non altri, la nostra identità ha bisogno proprio del diverso da noi,proprio dell’altro per continuare a dire che noi siamo proprio noi, e anche diversi dagli altri. Nell’incontro alla rivelazione che esiste un altro fuori di noi che non fa parte del nostro mondo, la nostra identità subisce una serie di trasformazioni, di alterazioni, perché il mondo non è più solo nostro ma dobbiamo condividerlo con l’altro. Questo paradosso  di perdita del centro del nostro mondo,di continua lotta tra  il tentativo di soppressione dell’altro e la sua assimilazione  per renderlo simile a noi vale per le persone ma anche per i popoli ma specialmente per le loro culture e i loro prodotti come le arti. Come esempio pensiamo a due culture la bianca e la nera che  hanno passato secoli in un continuo rapporto di forza, ostile con uno sguardo cieco, che non vedeva l’altro. La cultura bianca   per fare proprio l’altro per renderlo simile si è appropriata delle sue cose, degradandole a oggetti di nessun valore, ammassandoli  senza criterio come trofei e testimonianza della propria  supremazia. Possiamo invece datare con precisione il primo vero incontro con la cultura nera quando un occhio attento disponibile a vedere comincia a riconoscere nei prodotti tribali modi e forme che li collocano in un mondo estetico ben preciso al confine col nostro. Da quell’incontro le due culture quella europea e l’africana subirono una trasformazione  nel modo di percepirsi, di reagire  al  potere delle immagini; in fondo nel modo di riconoscere le identità dell’altro. Questo accade nel marzo 1907, il luogo è il museo del Trocadero e il protagonista è Pablo Picasso che in quel periodo stava cercando  in altre forme espressive una propria identità artistica. La cultura bianca dell’inizio secolo era  in grande trasformazione  sia per l’affermarsi del metodo psicoanalitico  che iniziava ad esplorare il mondo interno che  per l’esplosione della tecnica fotografica e anche cinematografica che riproduceva fedelmente la realtà esterna. Ancora  era predominante l’idea che l’arte fosse la riproduzione della realtà esterna, ma questa stava diventando un modello insufficiente  per gli artisti   che  estendevano la loro ricerca per   trovare nuovi modelli e nuovi temi. Nel ritratto di un volto si aspettava  di ritrovare la somiglianza della fisionomia ma anche  la personalità del modello. Picasso  ripensa il ritratto come un riassunto delle risposte dell’artista al modello e  lo trasforma  da un documento oggettivo (ormai dominio delle fotografia) a un concetto di identità ideale che  l’artista riesce a ricostruire  nella propria mente. Dipingendo a memoria e non più dal vero il ritratto diventava l’immagine  non di come era  il modello ma di come era visto  e vissuto dall’artista. Una specie di fotografia di quanto era avvenuto nella mente dell’artista  alla vista del modello. A 26 anni Picasso è in un momento di grande curiosità per nuove stimolazioni  e di grande fermento nello  sperimentare nuove strade. Nell’estate del 1906  passa un periodo sui Pirenei a Gosol, studiando l’arte ispanica antica della scultura su stele, e ne ripropone  dei torsi in legno, compra due sculture che erano state trafugate dal Louvre, ma ha anche l’occasione di vedere la Madonna di Gosol statua lignea che si caratterizza per gli occhi enormi.  Questi occhi si ritrovano nei ritratti  di Gertrude Stein  ma specialmente negli studi per il proprio ritratto, dove si figura    simile ad un ragazzo come fosse  ritornato  su percorsi antichi alla ricerca di  forme originarie. Occhi e volumi appena sbozzati prevalgono in questo periodo per tutto il 1906. Poi, al ritorno a Parigi  lo stile subisce una trasformazione improvvisa, nella primavera del 1907. Tutti i ritratti  dei mesi successivi riportano i segni di questa trasformazione a cominciare dagli occhi, dallo spostamento di piano dal frontale al profilo  dalla perdita del dettaglio fedele per astrarsi in una nuova fisionomia … serie di ritratti. Il riassunto e punto d’arrivo di tutto questo processo di astrazione dalla realtà termina alla fine di luglio 1907  con la sua  interpretazione del tema delle bagnanti che a partire da Cezanne,  imperversava negli artisti dell’epoca  in quanto permetteva di  studiare quasi come col metodo fotografico  la posizione  migliore per l’inquadratura del corpo. Il punto di sintesi sono Les demoiselles d’Avignon. Cosa gli era successo per determinare un radicale cambiamento  che  porterà poi tutta  l’arte occidentale  a diventare astratta? Lo indica Picasso stesso, quando descrive  l’incontro con la cultura africana. E’ nella primavera del 1907 che  Picasso presenta tutti i sintomi della sindrome di Sthendal  durante la visita del Trocadero, “spaventoso museo più simile ad un magazzino di rigattiere  sovraffollato”. Inaugurato nel 1882, il Trocadero raccoglieva in modo confuso tutti gli oggetti tribali  riportati dalle  varie spedizioni come testimonianze  e trofei della conquista coloniale francese. Le tre spedizioni dall’83 all’86 di Pierre Savorgnan di Brazza nelle regioni dei fiumi  Congo e Ogowe, riportarono  un bottino di un centinaio di casse di reperti naturalistici ed etnografici. Fu redatto un notiziario sulle collezioni delle missioni scientifiche  che dimostrava però dalle considerazioni affrettate  la scarsa attenzione per usi  costumi credenze e miti da parte di chi  aveva raccolto in loco i vari reperti. Erano giunti ad es.  tre esemplari di reliquiari dei Ba-Kota ma  senza la parte essenziale  costituita dal paniere che conteneva le ossa del cranio. (Alla spedizione partecipava Antonio Pecile che diede due reliquari all’Italia  dove ancora si trovano al museo Pigorini di Roma). “Era disgustoso  un  vero mercato delle pulci… Ero solo. Volevo andarmene ma non andavo via rimanevo, rimanevo... capii che era  molto importante che mi accadeva qualcosa… Mi trovavo in piena magia.. Non erano sculture come le altre:  erano cose magiche! L’ammasso confuso permette di cogliere anche per la forzata vicinanza il mescolarsi del sacro con l’esperienza quotidiana. Poi ho capito: …  non ci eravamo accorti che  i primitivi erano esorcizzatori contro tutto, contro spiriti minacciosi, contro tutto l’ignoto che ci circonda che ci è nemico”.  L’immedesimazione qui è totale. In Africa  tutto è soggetto a  interpretazione da parte dello scultore per esorcizzare la paura. Mentre da noi l’artista è solo e isolato e la sua creazione passa dal suo studio al museo, in Africa rimane in continua comunione con  gli altri, crea mentre partecipa alla vita del villaggio, non basta che egli crei ma bisogna che il villaggio accetti la sua proposta. L’opera non è più sua e per questo è anonima, senza firma, perché tutti sanno  chi è il fabbricatore che gode di uno status sociale particolare, ma diventa magica perché partecipa del consenso di tutti, esprime una conoscenza che è riservata  e appresa  gradualmente solo da  iniziati e viene consacrata  da riti  ben precisi. L’artista è un iniziato e conosce i segreti del mito e dei riti, li tramanda nella sua opera  che diventa sacra proprio perché racchiude la potenza e il sapere del mito  L’artista resta anonimo perché la sua funzione non è di inventare di creare  ma di  far scoprire i segreti del mito. L’opera  una volta consacrata fa parte del villaggio come oggetto sacro dotato di poteri. Potere di conoscenza, riservata, imparata per gradi. Se non ha questo alone di  sacralità  l’opera  perde i suoi poteri i suoi segreti  e quindi può esser  distrutta. Non ha più importanza  e può così esser lasciata o meglio venduta ai non iniziati,  specie se europei. Nelle popolazioni  del Congo nord  la produzione di maschere e dei reliquari era caratterizzata da una grande cresta sagittale che ricorda quella del gorilla maschio  simbolo della forza invincibile  e inarrestabile; questa si ritrova amplificata o modificata  a  delineare una figura di testa umana derivata più da un immaginario   onirico che reale.


Nella tradizione Kota infatti   si è ricorsi a una espressione onirica  quella delle immagini pure (questo è il significato delle parola mbulu) degli antenati diventate più immagini mentali che ritratti reali. Diventano segni formule stilizzate e geometrizzate allusive  in un sistema a due dimensioni: non è importante riconoscere il morto, quel parente  ma è vitale per la collettività  ricordare che i morti nel loro insieme pesano sulla sopravvivenza dei vivi: il mbulu ngulu è  il richiamo costante del legame che esiste tra mondo dei morti e dei vivi. L’aspetto sacro e segreto è legato al culto dei crani e ossa conservate nei panieri, gelosamente conservate, mentre i guardiani in legno  erano ceduti agli europei curiosi  come nella spedizione di Savorgnan de Brazza. I reliquiari dunque  hanno assunto uno stile con il tema ricorrente della grande cresta sagittale. Cresta e ali laterali del mbulu ngulu placcate di rame  sono una trasformazione audace che porta dal piano sagittale tridimensionale  al piano trasversale  a due  dimensioni:  soluzione  artistica questa straordinaria per alludere alla perdita di una dimensione  esistenziale del defunto, che rimane ancora “vivo” ma solo in forma di doppio, privo della  terza dimensione del corpo. Picasso  intravvede  subito le componenti estetiche e le soluzioni ardite di questi oggetti  e li trasforma attraverso il suo sguardo in opere d’arte, ne riconosce  il valore di capolavori. Ed è alla fine di luglio del 1907, dopo una produzione  esplosiva di studi e ripensamenti che finisce Les demoiselles d’Avignon il cui volto a maschera   si sovrappone alle  figure del reliquiario Kota e Hongwe. Sul piano delle metamorfosi plastiche  rimane costante anche nella produzione successiva un  richiamo con lo choc del Trocadero. Nel ritratto di Dora Maar  del 37 o la testa di donna del 35 ,  col  volto  colto sia   di fronte che di profilo, ritornano  ancora   i volti de i guardiani ondoumbo, Come gli scultori Kota o Mahongwe  avevano già osato per i loro bisogni spirituali e sociali, anche Picasso  riesce  ad effettuare questo passaggio iconografico dal reale al sogno. Con quell’incontro le cose cambiarono. Si cominciò ad accettare l’idea di una estetica primitiva  e  l’arte occidentale   non  si limitò più  a rappresentare la realtà, ma inizia un viaggio di autoanalisi di rispecchiamento della realtà interna, di descrizione del grande senso di colpa, non ancora risolto, di non saper  scoprire l’arte diversa.